L’esperienza evolutiva dell’essere umano/spirituale deve essere fatta in un corpo, fisico.

L’uomo è Spirito e nella materia fa una esperienza evolutiva.
L’unica esperienza che lo spirito può fare nella materia è quella umana.  E’ una esperienza fatta in un arco di vite.
Ad  ogni ritorno l’uomo porta con se un pezzetto di conoscenza in più, un pezzetto di evoluzione in più, un pezzetto di crescita in più. E pian piano incontra ciò da cui origina. Ma lo fa in un corpo altrimenti rimarrebbe pura coscienza, puro spirito, Assoluto, Atman. E non starebbe qui.
Atman, l’Assoluto siamo noi. C

Dunque se siamo qui, è perché un progetto cosmico lavora in questo senso e lo strumento che utilizza questa coscienza universale per conoscere se stessa nella dimensione materiale, è appunto la materia, il corpo dell’uomo.

L’uomo è la manifestazione visibile di uno spirito incarnato in un corpo, con il quale incontra Sé stesso sulla Terra e grazie al quale può ritrovare Sé stesso sulla Terra come riflesso del suo vero Se superiore.

Grazie a questo corpo, intelligentissimo, possiamo evolverci spiritualmente e la pratica di Āsana, raccolta dentro una vera e propria scienza, è uno strumento di governo degli strumenti del corpo e cioè della sua psiche o anima. L’anima è uno strumento utile ma pericoloso perché spesso senza governo. Essa è quella cosa grazie alla quale percepiamo gode, dolori, desideri, sensazioni, attrazioni, repulsioni. Senza governo essa diventa il nostro tiranno; ci muove come dei burattini. Attratti da mille luci ci muoviamo a seguirle tutte come faceva Pinocchio attratto dalle mille chimere del Gatto e la Volpe.
l’anima ha bisogno di governo, di ordine, di struttura; solo così può essere un buon servitore dello spirito, la nostra vera essenza, praticamente sempre oscurata dalle mille luci dell’anima.
Tutto questo crea lo squilibrio che ben conosciamo, quello squilibrio di cui ci sentiamo preda ogni giorno ed a cui non sappiamo dare un volto.
Imparare a governare l’anima ed i suoi capricci (vrtti) ci permette di iniziare ad incamminarci verso lo Spirito, la parte nostra vera, quella divina. Ciò che realmente guida il nostro corpo.
La pratica di Āsana è uno strumento del controllo dell’anima che possiamo anche chiamare “il mentale”.
la nostra mente è costretta a saltare da un punto all’altro spesso senza senso, mossa solo dalla brama del momento. Gli indiani la chiamano infatti “la scimmia”. Imparare a governare questa scimmia è il primo obiettivo della pratica di Āsana.

Patanjali il padre dello Yoga, negli Yoga Sutra dedica tre sutra ad Āsana: 46, 47, 48.

Il primo sutra(II.46): “Sthira sukham asanam”: la postura deve essere stabile e comoda.

L’Āsanadeve essere stabile, perché? Perché per essere stabile nel corpo devo essere stabile nella mente. Fermare il livello fisico vuol dire fermare quello mentale. 

La difficoltà maggiore un occidentale è la capacità di fermarsi. Tutto è una sequenza in rapido divenire nella nostra vita e non sempre è una sequenza ordinata. Più spesso sembriamo il giardiniere che corre a tappare buchi che si aprono continuamente nel suo tubo di irrigazione. Ne chiude uno e ne scoppiano altri due… 

Ecco che già imparare a stare fermi in una asana e farlo in maniera stabile e senza fastidi nel corpo, senza contrazioni e con un respiro regolare, appare a molti un traguardo inaccessibile.

Asana allora non è copiare una forma, quella dell’insegnante o del nostro vicino di tappetino. E’ piuttosto trovare la nostra forma quella nella quale il mio corpo diventa silenzioso perchè sta bene, non protesta, ed anzi è felice di mantenerla anche per molto tempo. 

Per arrivare a questa consapevolezza è importante lo studio di se stessi, l’auto osservazione, lauto educazione, il tirare fuori ciò che è sopito dentro di noi (svadhyaya). Riconoscere i propri limiti, accettarli e cercare di superarli con amore verso di me.

Questo è un lavoro di percezione di se e di conoscenza del proprio corpo, della muscolatura superficiale e di quella più profonda, dell’equilibrio, della percezione della posizione occupata dal corpo nello spazio, del calore, del battito cardiaco, del respiro.  Il tutto progressivamente attraverso uno sperimentare continuo, una continua opera di interconnessione tra me e me. 

Quindi “sthira sukha” serve a condurre l’adepto a padroneggiare il suo corpo in modo ”stabile e piacevole”. 

L’obbiettivo di Āsana è quindi di portare il corpo ad una perfetta immobilità, equilibrio, comodità e piacevolezza, solo  il compimento di queste premesse vpermetterà il salto verso il governo della mente, il vero obiettivo dello Yoga. Il silenzio interiore. 

L’allievo che non ha chiaro questo può scivolare verso uno yoga ginnico, competitivo o addormentato. Può addirittura abbandonare la pratica percependo in essa un obbligo di mortificazione, un senso di frustrazione e di impossibilità. Non comprendere questo ha fatto si che nascessero stili di yoga per ogni gusto, che tutto sono tranne che yoga.

Paradossalmente se l’allievo raggiunge quello stato non ha più bisogno di Āsana.

E’ quindi necessario che il maestro trasmetta la giusta attitudine nei confronti del lavoro che si andrà a fare per mezzo del corpo considerando che in realtà lo stato mentale che stiamo andando ad incontrare. Ecco un accenno del senso della parola yoga. Essa viene dal sanscrito yuj” (unità). Cosa vogliamo unire? In primo luogo il corpo ed il suo primo comandante in ordine gerarchico, la mente. Dopo andremo ad occuparci dell’unione con livelli di più alto grado.

Nelle pratiche yogiche vedremo come certe tecniche lavorino prima che sul corpo, sulla mente stessa.

Abolire i confini dell’ego 

Feuerstein, nella traduzione degli yoga sutra, afferma che nel momento in cui rilasso sempre di più muscoli ho sempre meno le enterocezioni del mio corpo e posso arrivare al punto di non vivere più il mio corpo come qualcosa di compatto, cioè perdo i confini del corpo, depongo non il corpo ma la ercezione del corpo, i processi fisici continuano a funzionare, anzi nel rilassamento funzionano meglio, ma non ho più bisogno di percepirli

Nel secondo sutra( II 47) Patanjali  dice:

“Grazie al relax dello sforzo e l‘immersione nell’infinito” si domina la posizione.

Patanjali dice che l’Āsana è realizzato compiutamente quando è realizzato “ananta” che vuol dire senza fine, senza confine. Meditare sull’infinito significa abolire i confini dell’ego.

Āsana sono dunque elementi destrutturant. Attraverso il lavoro sul corpo e forme totalmente inusuali è possibile passare da un’unica forma a una molteplicità di forme. Il praticante sperimenta la diversità, l’opposto, addirittura l’assurdo.

Si eseguono forme e si medita sul regno minerale (la montagna), il regno vegetale (l’albero), il regno animale (il cane).

Per aumentare la coscienza riconoscere la qualità di tutte queste forme ci indirizza verso la disidentificazione, verso una liberazione dai condizionamenti che tengono imprigionata la coscienza.

Āsana allora opera un processo di trasformazione della coscienza, da una consapevolezza di superficie ad una coscienza di profondità. La coscienza si espande dunque attraverso una maggiore consapevolezza del corpo.

Il risultato 

Il terzo sutra di Patanjali (II 48) parla del risultato:
“Di lì (da questo modo di praticare) risulta l’assenza di assalti dagli opposti”. Libertà dagli opposti, libertà dalla doppia faccia delle cose, libertà dalla dualità.
Siamo abituati a schierarci da un opposto all’altro: bello brutto, mi piace-non mi piace, giusto-sbagliato, corretto-sbagliato, attratto-respinto.

Lavorando verso il superamento delle dualità che ritroviamo ad esempio nell’equilibrio fra muscoli agonisti e antagonisti siamo pronti per la meditazione. Ma di questo parleremo ancora.

Christina

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