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Estirpare i condizionamenti – Antar Mouna

Antar Mouna è una pratica che rientra nel V degli otto rami dello Yoga tradizionale di Patanjali. Esso prepara la strada al più importante dei passi ovvero la Meditazione: Dhyana.
Non si può infatti giungere alla meditazione se non si è fatto un percorso prima.

È purtroppo pieno di gente dalle nostre parti che dice o crede di meditare, gente che comincia da un giorno all’altro in qualche centro fitness o col gruppo dell’amico o dopo aver ascoltato uno YouTuber o qualche articolo di magazine.
Ma ciò non può essere perché la Meditazione è un punto di arrivo, non di partenza. E come ogni meta, richiede un percorso e come ogni percorso richiede conoscenza, applicazione, fatica, impegno, presenza, costanza. Non a caso Patanjali è tutta la tradizione Yoga pongono il raggiungimento di questo stato prima dell’ultimo – il Samadhi – ovvero lo stato dell”illuminazione.
Dyhana-Meditazione non è alla base del percorso dunque, ma alla fine. È l’ultima porta prima dell’illuminazione. Per tale ragione la Meditazione è cosa seria. E per tale ragione lo Yoga ne prepara il raggiungimento gradua tramite 6 passi precedenti che sono: Yama, Niyama, Asana, Pranayama, Pratyāhāra, Dharana; solo dopo aver percorso questi passi che non sono prescindibili, si può giungere a Dyhana ovvero la Meditazione.
Tutto ciò che noi facciamo, ogni nostro agire, che sia andare a fare la spesa, un viaggio, un percorso di studi e d ogni cosa che abbia la sua metà, ha bisogno di una ‘gravidanza’ per venire alla luce, per nascere. Lo stesso vale per la Meditazione. Dietro di sé ha 6 stadi e ciascuno di essi è il frutto di quello precedente. Il Pratyāhāra dunque è il V di questi otto passi ed il suo intento è aiutarci ad estirpare i condizionamenti da cui è gravata la nostra mente di superficie o psiche o coscienza ordinaria, al fine di farci avanzare con delicatezza e senza pericoli verso lo stato meditativo ove riusciamo ad osservare i nostri pensieri e non esserne più solo i megafoni, i ripetori automatici Questo perche non si puo arrivare ad uno stauo meditativo se la mente è continuamente richinata dai suoi fantasmi quali: condizionamenti, riflessi, incombenze, ricordi, paure, desideri, simpatie, antipatie, etc… e tutto questo non si cancella da un giorno all’altro perché siamo andati a fare il corso di meditazione del centro yoga dietro l’ufficio.
Così lo Yoga ci offre degli strumenti seri e certificati nella loro efficacia e sicurezza. Ed uno di questi è Antar Mouna che risiede nell’area del Pratyāhāra.

Pratyāhāra significa “contro alimentazione”, della mente ovviamente non dello stomaco. Ovvero dare in pasto alla mente (che non sa fare altro che pensare e dunque quello è il suo cibo…) pensieri scelti e consapevoli e liberarla così dai pensieri automatici, riflessi, condizionati che ribollono continuamente dentro di lei e nutrono di schifezze il nostro corpo mentale o corpo astrale o psiche impedendo ad esso di farsi ponte verso lo spirito ed ancorandolo invece solo alle incombenze materiali e del personaggio che siamo diventati nella nostra vita grazie al nostro ambiente ed ai condizionamenti che vivono nella nostra mente e continuamente plasmano il nostro modo di essere. C’è dunque bisogno, prima di arrivare al governo della mente, di imparare a nutrirla di altro, qualcosa che abbiamo scelto noi.

Con la tecnica di Antar Mouna (Silenzio Interiore), in tutta sicurezza inizieremo a liberarci del personaggio che il mondo esterno ci ha fatto diventare nel tempo.

Ma il silenzio interiore raggiunto all’improvviso come vorrebbe farci fare lo YouTuber o il centro fitness/yoga, sempre che riuscisse, sarebbe pericoloso nella misura in cui, tolto tutto quello che ci ha stratificati e nel quale ci identifichiamo, ci ritrovassimo senza struttura, che per quanto sbagliata fosse, era comunque un punto di appoggio.

Procedere senza rete ad affrontare tecniche per il raggiungimento di silenzio interiore ci espone infatti al rischio di trovarci in uno stato di vuoto, di dispersione, di angoscia che chiamiamo laya. E questo non è cosa buona. Per questo meditare senza sapere cosa si sta facendo è pericoloso. 

Antar Mouna con suoi 5 livelli ci fa camminare in un percorso lento, controllato consequenziale e dunque sicuro.

Il primo passo. L’osservazione

Capita di voler ricordare qualcosa che sfugge ed istintivamente per concentrarci portiamo uno o due dita al centro delle sopracciglia
Ecco quello è il punto dove si localizza lo schermo della nostra COSCIENZA
Quello spazio frontale dove ci focalizziamo quando pensiamo a qualcosa è lo schermo ove proiettiamo i nostri contenuti e si chiama Chidakasha.

In questa prima fase, semplicemente prendiamo atto di questo luogo.

Il secondo passo

Nella seconda fase, come facciamo per asana – che deve essere stabile e confortevole -, dobbiamo mettere la coscienza a suo agio. Quando, lasciamo andare.

In quello spazio che abbiamo individuato nella prima fase- Chidakasha -, allentiamo volontariamente tutto ciò che è stato stretto nella mente. Poniamo la mente in uno stato di profondo relax simile alla fase ipnagogica, quella che precede l’addormentamento, e lasciamo emergere senza intervenire i contenuti che sono nella nostra coscienza. 
In questa fase le immagini che arriveranno non devono essere ne accettate ne respinte, devono passare, le dobbiamo lasciare libere di fluire senza attirarne o trattenerne alcuna, senza elaborarne alcuna. Libere di fluire come il paesaggio dal finestrino di un treno in corsa, che arriva, passa e se ne va.

All’inizio può non arrivare nulla, ma se ci fidiamo, se ci lasciamo andare qualcosa arriva. Qualsiasi essa sia, non la giudichiamo osserviamo e basta. Se la giudichiamo essa può fuggire via.

Questo processo è bellissimo perché ci permette di conoscerete i contenuti della nostra mente cosa che in condizione di coscienza ordinaria non riusciamo a fare tanto siamo distratti e sommersi da pensieri.

È questo è ‘svadhyaya’, lo studio di se ed è così che iniziamo a scoprire noi stessi e scorgere cosa vive in noi.

Terza fase

Questo è un il gradino operativo dove interveniamo con la nostra volontà; andremo a fornire alla mente un’esca, le diamo qualcosa di cui vogliamo che si occupi.  Le diamo un lavoro da fare, un ricordo doloroso, una emozione forte, un trauma
Questo riportare la mente a rivivere quel momento di dolore può essere anche accompagnato da lacrime, da un nodo in gola, da palpitazioni
E’ un momento di repulsione per la mente, quello che si chiama dvesa
I sensi si riattivano e rivivono ciò che hanno vissuto in quel momento. Per esempio dolore.

In ogni ricordo c’è un po’ della nostra energia vitale, non a caso un assioma dello Yoga dice: l’energia (prana) va dove va il pensieroe se il pensiero va ad emozioni dolorose, l’energia andrà li, ma se dolorirancoripaure, non abbandonano i nostri pensieri parte della nostra energia sarà sempre costretta a rimanere li. 
Quante di queste vrtti ci sono dentro di noi? 
Immaginiamo quanta energia vitale è imprigionata a nutrire qualcosa che non ci serve più…

Molte persone non sanno che la loro sensazione di eterna stanchezza è dovuta al fatto che sono rancorose, piene di ricordi, piene di fantasmi. Alla luce di quanto detto, immaginiamo quanto Prana possa essere sottratto alle riserve energetiche del corpo.

Mai sentito parlare di psico-somatica?

Andare a togliere nutrimento a a quei fantasmi significa portare salute perché si libera la psiche di fardelli dei condizionamenti e si attivano le potenzialità del libero pensare riuscendo ad incontrare chi siamo realmente su un piano di coscienza superiore.

Per fare questo dobbiamo diventare spettatori dell’evento e purificarlo da tutte le connotazioni dolorose che esso contiene; 
osservare l’evento e vedere che è altro da noi, è solo un evento di cui siamo stati parte in un passato che non esiste più e che dunque non siamo noi. Non va rinnegato, va integrato e va visto come uno strumento di evoluzione grazie al quale oggi siamo ciò che siamo in tutta la nostra bellezza. 

Se lo osserviamo come testimoni, impariamo a distaccarlo da noi ed entreremo finalmente con pienezza nel nostro momento presente e tutta l’energia che avremo liberato che era bloccata in quel trauma, potrà tornare a servire noi, non i ricordi (smrti, la memoria). 

Quando saremo riusciti a fare questo saremo pronti per il successivo passo.

Quarta fase

Qui il lavoro è simile ma più difficile perché ci misureremo con degli eventi positivi, daremo alla coscienza qualcosa di attraente. Eserciteremo raga.

Patanjali mette in guardia da queste tentazioni più sottili, perché la coscienza, che si è svincolata dalle cose negative, non rimanga imprigionata da quelle positive. E’ tutto un gioco di asmita, l’identificazione, che vuole riportarci ad un riferimento. 
La mente non può stare senza riferimenti.

Ovviamente un riferimento piacevole è quanto di meglio su cui indugiare. Il nostro lavoro sarà quello di liquidare anche quelli. Ne diventiamo spettatori e li lasciamo andare. Il discorso infatti è identico a quello fatto per i ricordi negativi.

Quinta fase.

Fatto tutto ciò siamo in grado di prendere consapevolezza che intorno a noi è pieno di pensieri inutili che vogliono vivere, premono per entrare, chiedono continuamente nutrimento
Ma ora li vediamo, prima erano puro e semplice frastuono, rumore, inconscio. Ora ne siamo consapevoli. 

Ora sappiamo che ci sono, possiamo guardarli. Essi esistono in una coscienza periferica, come quando osservo un oggetto e mi rendo conto che tutto intorno c’è dell’altro. 

Antar Mouna – Un sogno lucido

Potremmo paragonare il lavoro che facciamo con Antar Mouna a quello di un sogno lucido. I sogni del normale stato di coscienza ordinaria non sono lucidi. Coscienti.

In fase di sonno, quando le impressioni sensoriali sono spente, la mente può andare a ruota libera perché perde i collegamenti con i sensi. 
Quegli stessi pensieri che di giorno erano in qualche modo connessi dalle azioni che stavamo facendo, di notte non hanno alcun collegamento. Quindi si manifestano e basta. Ecco perché i sogni non hanno un senso profondo. Durante la veglia , passano nella mente centinaia di migliaia di pensieri, alcuni utili alla nostra vita quotidiana, la maggior parte disordinati, caotici, indesiderati, casuali.
Si può notare che per esempio se sto facendo o pensando ad una cosa arriveranno a disturbare molti pensieri che mi porteranno in luoghi inaspettati

Il Pratyāhāra insegna in primo luogo a: 
– scollegare i pensieri dai sensi come accade nella fase di sogno, 
– a guardare quei pensieri impedendogli di passare inosservati come avviene durante la veglia alla maggior parte di noi.
– ed infine esserne coscienti. Impedirgli di stare in agguato.

Pratyahara ci insegna Vairagya, il distacco da essi. 

Quando saremo riusciti a metterli sullo sfondo e tenerli a bada la mente si sentirà spaesata.

In quello spazio che abbiamo liberato allora vorranno affiorare varie altri fantasmi quelli più pericolosi, quelli dell’inconscio. 
Quelli che non sappiamo guardare, non possiamo guardare perché troppo dolorosi, sono quelle cose che i nostri sistemi di protezione ci hanno occultato.

Questa è una prova difficile e non avere alcuna struttura di sostegno potrebbe rivelarsi molto pericoloso. 
Meglio allora non provare proprio a misurarsi con una esperienza del genere se non si possiede una rete di sicurezza, come può essere lo Yoga.

Meglio, se ne percepiamo il bisogno, rivolgersi ad un terapeuta.

La psicologia finisce dove inizia lo Yoga.
Lo Yoga ci permette di lavorare con le nostre mani, la psicologia tradizionale usa mani altrui che non è detto siano capaci di occuparsi di noi e proprio di noi, per quanto esperte e preparate possano essere.

Tuttavia dobbiamo sapere cosa stiamo facendo; dobbiamo essere seguiti da un maestro esperto.


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