Dall’incontro degli Indoeuropei alla nascita della spiritualità vedica: miti, società e visione del mondo
di LaViadelloYoga
Con l’arrivo degli Indoeuropei nel subcontinente indiano si assiste a una profonda trasformazione culturale e spirituale, frutto della fusione tra due civiltà molto diverse.
La civiltà autoctona indiana era fondata su un’economia agricola e su una religiosità legata alla terra, alle stagioni e al ciclo della natura. Le sue divinità abitavano negli alberi, nei campi e nei ritmi vitali. Al contrario, i popoli indoeuropei che giunsero in India erano allevatori nomadi, organizzati in clan, e la loro religione era legata al cielo, al movimento e alla luce. Le divinità che li accompagnavano non avevano alcun legame con la terra né con la figura della grande dea; erano esseri celesti, portatori di potenza, adatti a un popolo in cammino.
Questa differenza si riflette anche nella lingua: il termine “Dio”, ad esempio, nelle lingue indoeuropee deriva da una radice comune, deiwos, che significa “celeste” o “splendente”. Da questa radice provengono parole come Deva nei Veda, Zeus in greco e Jupiter in latino.
Uno studioso francese, Georges Dumézil, ha individuato una struttura mentale ricorrente nei popoli indoeuropei: una visione tripartita della società. Le tre funzioni fondamentali sono:
- Il potere religioso, magico e giuridico.
- Il potere militare.
- Il potere economico e produttivo.
Questa struttura si riflette perfettamente nel sistema sociale vedico, basato sulla divisione in quattro classi o varna. Le prime tre incarnano la tripartizione funzionale:
- I Brahmani (sacerdoti) rappresentano la funzione religiosa e giuridica.
- I Kshatriya (guerrieri e re) incarnano la funzione militare.
- I Vaishya (allevatori, artigiani e commercianti) svolgono la funzione economica.
Esiste anche una quarta classe, quella dei Shudra, composta da coloro che svolgono mansioni di servizio. Non sono considerati schiavi, ma nemmeno partecipano pienamente alla vita rituale. Le tre classi superiori sono dette Dvija, “nati due volte”: la prima nascita è biologica, la seconda è l’iniziazione nella religione vedica.
Il sistema delle caste, inteso come divisione ereditaria rigida con localizzazione delle professioni, si svilupperà in epoche successive. In origine, la mobilità era più fluida e legata anche a necessità materiali, come lo spostamento per seguire risorse o esercitare mestieri.
Alla tripartizione sociale corrisponde anche una tripartizione nel pantheon vedico. Nei Veda, le divinità (chiamate Deva) sono distinte dagli Asura, che nella fase arcaica non sono ancora “demoni” nel senso moderno, ma esseri potenti con una valenza ambivalente.
Due figure fondamentali sono Mitra e Varuna. Mitra è il dio del sole e del patto, garante dell’ordine sociale e giuridico. Varuna, di origine asurica, ha un aspetto più misterioso e terrificante: incarna il potere magico e sacrale. I suoi “lacci” spirituali si stringono intorno a chi viola l’ordine cosmico. Insieme, Mitra e Varuna custodiscono l’Rta, l’ordine universale, il ritmo profondo che regola il cosmo.
Il dio Indra rappresenta invece la funzione militare. È il dio guerriero per eccellenza, spesso accompagnato dai Marut, divinità della tempesta. Protagonista di miti epici, Indra combatte e vince Vritra, un drago a tre teste che trattiene le acque. Per sconfiggerlo, Indra beve il sacro Soma e impugna il Vajra, arma di fulmine. Squarcia il mostro e libera le acque, restituendo vita al mondo.
Accanto a questi racconti, nei Veda troviamo anche potenti miti cosmogonici. Uno narra di Hiranyagarbha, l’embrione dorato, da cui nasce l’universo. Un altro parla del Purusha, l’Uomo cosmico, che si smembra per creare il mondo. Le parti del suo corpo danno origine alle classi, al mondo naturale e al cosmo. Il messaggio è chiaro: l’universo è un organismo vivente, un tutto interconnesso.
Il mito più filosoficamente profondo afferma che all’origine non c’era né l’essere né il non essere. Un paradosso per il pensiero logico, ma centrale nel pensiero indiano. Le Upanishad spiegano che non poteva esserci il non-essere, perché se non è, non può neppure essere pensato. Ma allora cos’era? Non un nulla assoluto, ma una realtà al di là delle categorie del pensiero.
Per avvicinarsi a questa realtà, possiamo usare un’immagine: camminiamo in una giungla, su un sentiero che a un certo punto si interrompe. Davanti c’è un pericolo, dietro un ostacolo. Siamo intrappolati, ma poi ci rendiamo conto che era un sogno. Solo uscendo dalla logica binaria possiamo liberarci. Infatti, essere e non essere sono categorie mentali, generate dal pensiero.
Il pensiero spirituale indiano propone quattro modalità per accostarsi all’Assoluto:
- Catafatico: si usa un’analogia per dire “Dio somiglia a…”, come la luce o il sole.
- Apofatico: si procede per via negativa, negando ogni attributo. Dio non è né luce né tenebra, né bene né male.
- Interrogativo: non si afferma, si domanda. La domanda non chiude, ma apre al mistero. Come dice una massima zen: “Grande dubbio, grande risveglio. Piccolo dubbio, piccolo risveglio. Nessun dubbio, nessun risveglio.”
- Performativo: le parole hanno potere reale. Quando si pronuncia una formula come “Io vi dichiaro marito e moglie”, si modifica la realtà. Nella mistica, si usano anche performativi negativi, che sciolgono vincoli mentali, come: “Smetti di pensare, smetti di parlare, e nulla ti sarà sconosciuto”.
Secondo i Veda, il mondo nasce da un Uno che pulsa. Questa pulsazione genera Tapas, un calore interiore, forza concentrata, energia spirituale legata anche all’ascesi e alla sessualità sublimata. Da Tapas emerge un principio informe, chiamato Abhu in alcune interpretazioni, che genera Kama, il desiderio. Kama è il primo seme della mente. Da qui nasce Manas, la mente, che traccia la linea tra gli opposti.
Gli opposti — bene e male, luce e tenebra — non esistono in sé, ma solo come proiezioni mentali. Gli antichi rishi (veggenti) lo scoprirono attraverso la meditazione.
Riassunto del mito cosmogonico:
- All’inizio: né essere né non essere.
- Poi: acque, vibrazione, ondeggiamento.
- Poi: Tapas.
- Poi: desiderio (Kama).
- Poi: mente (Manas).
- Poi: linea, opposizione, dualità.
- Infine: il mondo così come lo conosciamo.
Lettura mistica (al contrario): dalla vita frammentata risaliamo alla mente, poi al desiderio, poi a Tapas, e infine all’Uno indistinto. Il ritorno interiore è un cammino di semplificazione e raccolta.
Dio è avvolto da una nube di non-sapere: per avvicinarci a lui, dobbiamo lasciare ogni pretesa di sapere.
Nel mondo vedico, alcune divinità che saranno fondamentali in epoca successiva compaiono solo marginalmente. Shiva, ad esempio, non è presente come figura personale. Compare solo l’aggettivo shiva, che significa “favorevole”. Tuttavia, appare Rudra, figura temibile, dio del nord, associato a malattie, frecce e tempeste. Rudra è anche un guaritore: si invoca per placare la sua ira. In epoca successiva, Rudra sarà progressivamente identificato con Shiva.
Vishnu è menzionato in pochi inni e in modo marginale. La sua importanza crescerà nei secoli successivi.
Ogni inno vedico è dedicato a un Deva, e ciascuno di essi è invocato come se fosse il solo. Questo ha fatto discutere gli studiosi su come definire la religione vedica. Non è propriamente politeista: il termine è più adatto a sistemi con divinità antropomorfe, in relazioni familiari e gerarchiche, come quello greco. Il vedismo è piuttosto henoteista: ogni dio è visto come supremo nel momento del culto, ma non esclude gli altri. I Deva non sono umani né in relazione tra loro. Sono manifestazioni di un’unica energia cosmica, forze della natura che assumono forma e nome. In epoche successive, queste forze si interiorizzano e diventano facoltà dell’essere umano, in un processo di progressiva interiorizzazione e spersonalizzazione.
I testi vedici, detti Shruti, cioè “ciò che è udito”, sono considerati rivelati. Gli uomini li hanno scritti, ma solo come trascrittori di una verità percepita interiormente. Tutte le scuole ortodosse dell’India riconoscono la loro autorità. Il buddismo e altre correnti che li rifiutano si pongono “fuori” dall’ortodossia.
I testi vedici si sono formati in modo stratificato. Le Samhita sono le raccolte più antiche, redatte tra il 1300 e il X secolo a.C. L’Atharva Veda contiene un intero capitolo dedicato ai Vratya, una comunità spirituale nomade, vestita di nero con turbante rosso. Celebravano riti con altari mobili e praticavano, in occasioni rituali, l’unione sessuale (Maituna). Questo rito anticipa, ma non coincide con quello tantrico: nel tantra, l’unione ha lo scopo di accedere a stati di coscienza non-duale, dove gli opposti si dissolvono.
Si dice che i Vratya conoscessero 16 tipi diversi di pranayama (tecniche di respiro), anche se questo aspetto potrebbe derivare da tradizioni successive. In un primo tempo si pensava fossero esterni alla cultura indoeuropea, ma numerosi elementi indicano il contrario.
Infine, compare la figura della dea Virarj, un principio femminile che, in alcune interpretazioni, anticipa l’idea della Kundalini: l’energia sottile che sale e scende lungo la colonna vertebrale. Virarj incarna simbolicamente un principio dinamico e spirituale che si risveglia attraverso la pratica interiore.