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Svādhyāya è uno dei cinque Niyama indicati da Patanjali negli Yoga Sutra (II.44). Il termine è composto da due parti:

  • Sva = “sé, ciò che appartiene a se stessi”
  • Adhyāya = “studio, lezione, lettura”

Quindi Svādhyāya significa studio di sé, ma anche studio delle Scritture sacre. È un concetto a due livelli che si integrano.

Il duplice significato di Svādhyāya

Come studio interiore:
è l’osservazione del proprio pensiero, delle emozioni, delle abitudini. Un’autoanalisi sincera che permette di riconoscere i meccanismi inconsapevoli e di portarli alla luce. Non è introspezione sterile, ma uno sguardo chiaro, come uno specchio, che riflette senza giudizio.

Come studio delle Scritture e dei testi sacri:
è leggere i testi sapienziali non per accumulare nozioni, ma per nutrire la mente con parole che contengono vibrazioni di verità. Lo studio delle Scritture è visto come una forma di meditazione: una lettura lenta, contemplativa, che illumina il proprio cammino.

    Svādhyāya è importante perchè porta conoscenza e chiarezza.
    Quando osservi te stesso, smetti di essere dominato dagli automatismi.
    Conduce alla consapevolezza del Sé.
    I testi sacri, meditati nel cuore, risvegliano la memoria della nostra natura divina.
    Collega mente e spirito.
    Lo studio sincero trasforma il pensiero in uno strumento di elevazione, non di dispersione.

    Negli Yoga Sutra si dice che attraverso Svādhyāya si ottiene samprayoga con la divinità prescelta: un contatto diretto, una sintonia con il principio divino.

    Come praticare Svādhyāya

    • Osservare se stessi quotidianamente, con calma, senza giudizio, per comprendere i propri moti interiori e guardarli non solo dal proprio punto di vista ma nel riflesso di sé nel mondo. . «Se vuoi contemplare te stesso, impara a conoscerti attraverso gli altri!»,* ossia attraverso l’ambiente. Come dice Rudolf Steiner: “Non quel che io ho fatto, cercato, voluto nella giornata, ma quel che gli altri hanno fatto cercato, sentito voluto per me
    • Leggere un solo verso o un breve passaggio di un testo sacro, lasciandolo sedimentare, meditando sul suo significato.
    • Ripetere un mantra o parole dello spirito che diventa il filo conduttore della mente verso la quiete, l’evoluzione della coscienza, la modificazione della volontà.

    Svādhyāya è quindi disciplina del pensiero: non un semplice studio intellettuale, ma un incontro vivo con la conoscenza che trasforma.

    Lo Yoga è un processo vivente di auto educazione, di trasformazione, di liberazione della coscienza dalle sue polarità e di evoluzione della stessa. Yoga consente il cambiamento istante dopo istante mentre lo si pratica. È la pratica non è niente affatto solo quella sul tappetino, magari facendo strane acrobazie. Lo yoga è processo da vivere in ogni momento della nostra biografia. Iniziamo diventando attenti osservatori d tutto ma senza diventare ovviamente ossessivi. Osserviamo per esempio quando mangiamo gli alimenti, i colori, i profumi, le forme, osserviamo noi nel nostro atto di mangiare e come mangiamo – se siamo lenti, voraci, distratti, indifferenti. Oppure osserviamo mentre parliamo: cosa e come lo diciamo, che tipo di linguaggio usiamo, la nostra cadenza dialettica, il tono della voce, la sua coloritura…E mentre camminiamo osserviamo il corpo come si muove, sentiamo i piedi, guardiamo come li spostiamo e li poggiamo, la lunghezza dei passi, il suono delle scarpe o del piede sul pavimento, il peso del passo. Possiamo poi diventare consci della postura, osservare lo stato della nostra colonna quando siamo seduti, ma anche dei movimenti sottili, quelli della mente mentre, dei desideri, delle simpatie, delle brame. E possiamo osservare i pensieri, cosa pensiamo e seguire origine, stato e dissolvimento dei nostri pensieri. Potremmo fare esempi su esempi.

    Dice Patanjali che tra le tre fonti di conoscenza corretta (Pramana) c’è la trasmissione di essa da parte del guru, maestro o chi abbia competenza inequivocabile. 
    Svādhyāyaè allora studio quotidiano di libri sacri e saggi e questo è un Satsang[1]indiretto, quando non è possibile avere un Satsang in compagnia dei santi.

    L’esperienza di “santi” che con il loro cammino hanno incontrano e rimosso le difficoltà, riempie la mente con Sattva – purezza – eleva la mente, aiuta la concentrazione e la meditazione. 

    Questo risolve i dubbi, induce anelito a sapere, dà incoraggiamento e illuminazione.

    Nel momento in cui il piccolo se egoico (ego) si è identificato nel gioco delle parti, cristallizzandosi nel ruolo svolto, si rende prigioniero di quel ruolo e se, per qualsiasi ragione il ruolo dovesse scomparire (licenziamento, divorzio, trasferimento, perdite familiari etc..) scompare anche l’attore che lo impersonava. Li possiamo dire che ha inizio il dramma pirandelliano del “personaggio in cerca di autore”.

    Lostudio di sé, il conosci te stesso, lo studio delle modalità di funzionamento del proprio corpo e della propria mente non può prescindere da quello dei sacri testi, in quanto gli archetipiin essi contenuti sono i modelli di riferimento e di sviluppo evolutivo per ogni essere umano.


    [1]L’incontro, la compagnia, il dialogo con persone spiritualmente elevate.

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