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Se con gli Yama impariamo a governare i pensieri e le azioni rivolti verso l’esterno, con i Niyama il controllo si sposta all’interno: qui impariamo a regolare il pensiero verso noi stessi, e così facendo governiamo anche il nostro sentire.

I Niyama sono quindi il cammino dell’autodisciplina interiore. Ci invitano a purificare ciò che ci appesantisce, a moderare ciò che ci distrae, a coltivare la gratitudine e la dedizione.

Depurazione e semplicità

Per prima cosa, Niyama ci richiama alla depurazione, fisica e mentale. Dobbiamo liberarci dalle tossine – ama – sia interne che esterne, sia quelle che intossicano il corpo che quelle che avvelenano la mente e il cuore.

Dobbiamo vigilare affinché i nostri sensi non ci trascinino in situazioni di tossicità, in abitudini che ci allontanano dalla chiarezza interiore.

Niyama ci insegna anche il contentarsi di ciò che si ha. Non significa rinunciare alle aspirazioni, ma comprendere che molte ambizioni, legate ai desideri sensoriali, portano a inseguire il superfluo e a soffrire – o far soffrire – per possederlo.

Le tre pratiche attive

Per realizzare tutto questo è necessaria una pratica attiva, che coinvolga volontà, pensiero ed emozione. Patanjali la riassume in tre pilastri:

  • Tapas – la disciplina del corpo e della mente, il calore dello sforzo cosciente.
  • Svadhyaya – lo studio di sé e delle Scritture, l’uso dell’intelletto per illuminare la mente.
  • Īśvara-Pranidhāna – la devozione e il lasciarsi guidare da ciò che è più grande del proprio ego, l’offerta del proprio agire al Divino.

Queste tre forze corrispondono ai tre aspetti dell’essere umano:

  • Tapas agisce sulla volontà,
  • Svadhyaya sull’intelletto,
  • Īśvara-Pranidhāna sul sentire.

I Niyama non sono quindi solo regole, ma un percorso interiore di purificazione e crescita. Sono il modo in cui prepariamo il terreno dentro di noi, affinché la mente diventi limpida e il cuore aperto, e lo Yoga possa davvero fiorire.

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