Da sempre l’uomo si interroga sulla radice del suo dolore. Non il dolore accidentale, quello fisico che punge e poi svanisce, ma quella sofferenza sottile, persistente, che accompagna l’esistenza come un’ombra.
Patanjali, il grande codificatore dello yoga, ha osservato questa condizione con occhi limpidi e ci ha lasciato, nei suoi Yoga Sutra, una mappa: non solo una tecnica per il corpo, ma un percorso interiore per scoprire da dove nasce davvero la nostra infelicità.
Secondo lui, i Klesa, le afflizioni dell’anima, sono i fili invisibili che intrecciano miseria e dolore nella vita umana.
Ma come si possono sciogliere questi nodi? Non con un gesto rapido, né con un’illuminazione istantanea.
Chi è immerso nella frenesia del mondo, chi è dominato dalle illusioni dell’ego, non può tuffarsi subito nel cuore profondo dello yoga.
Serve una preparazione, una lenta purificazione del pensiero, del sentimento e della volontà.
Patanjali chiama questo primo passo Kriya Yoga, lo yoga dell’azione preliminare. È una disciplina semplice ma potente, che si articola in tre movimenti:
Tapas, la capacità di agire con disciplina e chiarezza;
Svādhyāya, lo studio di sé e dei testi sacri, per affinare il pensiero;
Isvara-pranidhana, lo sviluppo del sentimento della devozione verso ciò che trascende il visibile, verso lo Spirito che abita ogni cosa.
Tre porte che corrispondono alle tre nature dell’uomo: il corpo che agisce, l’anima che sente, lo spirito che pensa.
Senza questo lavoro preliminare, l’essere umano rimane prigioniero dell’illusione che la vita abbia senso solo se adornata di ricchezza, potere e fama.
Oggi queste seduzioni hanno assunto forme ancora più raffinate: i social media alimentano l’ossessione per l’apparire, promettono briciole di popolarità attraverso like e followers, danno l’illusione di possedere una forma di potere sugli altri, di poter influenzare gusti, scelte e pensieri. Ma tutto questo è un miraggio, una fame che non si sazia mai, perché nasce dall’ego e dall’ignoranza della nostra vera natura.
Le radici dell’illusione
Da Avidya nasce Asmita, l’illusione dell’identità. È l’ego che dice “io sono” e poi aggiunge una maschera: io sono il mio nome, il mio ruolo, il mio mestiere. Io sono padre/madre/figlio, idraulico/architetto/impiegato, francese/italiano/svedese, etc etc. Ma dietro a tutte queste etichette, chi c’è davvero?
Il vero “Io sono” non ha bisogno di aggettivi. È pura coscienza, è Logos, è la voce sottile che ci accompagna anche quando non la sentiamo. L’ego distorce questo messaggio e ci fa credere di essere solo il personaggio che indossiamo nella vita.
Tra i Klesa, Patanjali mette al primo posto Avidya, l’ignoranza.
Non l’ignoranza scolastica, ma quella più profonda: la dimenticanza della nostra essenza spirituale. È non sapere chi siamo davvero, è confondere il Sé eterno con il non-sé, l’ego, il corpo fisico, ciò che nasce e muore. Avidya è pensare che tutto sia materia e caso, che non ci sia altro oltre ciò che tocchiamo.
È una cecità che ci fa scambiare il transitorio per l’assoluto, l’ombra per la luce.
E quando l’Io si dimentica di sé, quando si identifica con il personaggio, nasce il desiderio e la dualità si manifesta appieno.
Nasce Raga, la brama, l’attrazione impulsiva, compulsiva verso ciò che ci promette piacere.
E con Raga nasce inevitabilmente Dvesa, l’antipatia, la repulsione verso ciò che crediamo sia fonte di dolore.
Sono una coppia inseparabile, attrazione e avversione, che ci incatenano a un pendolo incessante: inseguire ciò che ci piace, fuggire ciò che non sopportiamo. E così la coscienza, invece di essere libera, si restringe sempre di più.
Alla fine, dall’ignoranza germina anche Abhinivesa, la paura. La paura di perdere la vita, la paura della morte del corpo. È il timore che nasce quando crediamo che questa esistenza sia tutto ciò che abbiamo, quando ci illudiamo che oltre la materia non ci sia nulla. Da qui derivano l’egoismo, la competizione, la corsa a trattenere ciò che inevitabilmente sfugge. È questa paura che ha trasformato persino la scienza medica: l’uomo viene trattato come una macchina da riparare, la malattia diventa un difetto tecnico da eliminare con protocolli uguali per tutti, e il senso profondo della cura viene perduto.
Sciogliere i nodi
Tutti i Klesa sono legati tra loro.
Avidya, l’ignoranza, è la radice; da lì nascono ego, desideri, paure, avversioni.
È una catena che trascina la coscienza verso il basso, nella materia, lontano dal suo nucleo divino.
Ma questa catena può essere sciolta. Non con la fuga, non con la negazione, ma con un lavoro paziente sulle tre qualità dell’anima: pensiero, sentimento e volontà.
Questo è il senso del Kriya Yoga:
illuminare l’azione con la disciplina,
purificare il sentire con la devozione,
chiarire il pensiero con lo studio e la conoscenza di sé.
Solo così i Klesa perdono la loro forza.
Solo così il velo dell’ego si assottiglia, lasciando emergere il vero “Io sono”, quello che non ha forma né fine.
E quando questo Io viene riconosciuto, la vita smette di essere una corsa cieca verso potere, fama e ricchezza, e diventa un cammino di ritorno verso lo Spirito.
La sofferenza non è più un nemico, ma un messaggero.
E la pace non è qualcosa da conquistare fuori, ma una condizione che si rivela dentro, quando smettiamo di identificarci con ciò che non siamo.