«La conoscenza dello yoga è liberamente accessibile a tutti coloro che sono disposti a riceverla,
come la schietta luce del giorno».
Parole di Bhaduri Mahasaya – “Il Santo che levitava”
Lo Yoga è una disciplina complementare al sentiero della conoscenza dell’Essere Umano. Questo sentiero è chiamato Jnana Yoga.
E’ una Scienza Spirituale che ha come fine l’unione, il ritorno dell’Uomo con il Principio, la liberazione della sua anima e la sua reintegrazione nello Spirito.
Già il termine è indicativo del suo significato spirituale. Infatti la radice sanscrita yuj (giogo) indica un soggiogare ma insieme un unire pensiamo all’aratro ed ai buoi. Soggiogare cosa? La dualità delle forze dell’anima, gli opposti, la dualità che ci fa sempre propendere da una parte o dall’altra – Raga e Dvesa.
Ed unire cosa ed a cosa? Unire sé stessi all’Uno, il Logos.
É disciplina del corpo e della mente/anima, ma anche unione di essi con lo spirito.
Possiamo definire allora lo Yoga anche come la reintegrazione dell’individuale nell’universale, del relativo nell’Assoluto.
E’ una scienza perché si basa su una sperimentazione diretta che dà ripetibilità, leggi, controllo di tutte le nostre facoltà, potenziandole, equilibrandole ed armonizzandole. É una scienza molto antica e sia Upanishad che Bhagavad-gītā la trasmettono.
Gia nelle prime Upanishad le menzioni si moltiplicano, leggiamo nella Chāndogya-Upanishad – facente parte del Sāma-Veda -:
“Colui il quale, ritraendo e concentrando in sé (nell’Ātman) tutti i sensi, rispetti…la vita di tutti gli esseri, costui invero, che per tutta la sua vita così si conduce, costui entra nel mondo del Brahman dal quale non più ritorna, dal quale non più ritorna.” (VIII,5)
Nella Katha-Upanishad:
“Il saggio, in seguito alla realizzazione dello yoga (adhyātma-yoga), avendo contemplato (in sé) il Dio che è difficile da vedere, che è sprofondato nel mistero, che giace nel cuore, che è riposto nella cavità, che è l’antico, abbandona il piacere e il dolore.”(II,12)
“Questo Ātman non è conseguibile mediante spiegazioni, mediante intelletto oppure studio, per quanto grande; esso può essere ottenuto da colui che egli stesso sceglie; è per costui che l’ Ātman riveste il suo corpo. Non lo consegue con piena conoscenza colui il quale non abbia desistito dal compiere il male, che non sia sereno e raccolto, la cui mente non sia calma.”
(II,22, 23).
Nella Śvetāśvatara-Upanishad vengono menzionate alcune tecniche che diverranno proprie allo yoga:
“Il saggio, avendo collocato il proprio corpo in un luogo piano, tenendo erette le sue tre parti (schiena, collo, testa), mediante la mente ritraendo i sensi dentro il cuore, potrà attraversare con la navicella del Brahman tutte le correnti che portano in sé il terrore. A questo punto, compresso il respiro nel corpo, e regolando i movimenti, si dovrebbe respirare attraverso le narici con soffio lieve; come un carro aggiogato con cavalli selvaggi, il saggio deve contenere la propria mente senza distrarsi”.
E ancora:
“Si pratichi lo yoga in luogo pulito, piano, libero da ciottoli, fuoco e sabbia, vicino al suono dell’acqua o ad altre melodie, capaci di favorire il pensiero e non offendere la vista, un luogo riparato dal vento e raccolto”.
Nella Bhagavad-gītā, poema filosofico e religioso che fa parte del Mahābhārata e appartiene alla tradizione rammentata (Smṛti), leggiamo:
“Concentrato nello yoga, compi l’azione rinunciando all’attaccamento: sii uguale nel successo e nell’insuccesso, il perfetto equilibrio interiore si chiama Yoga.” (II, 48)
“Simile a fiamma, che non vacilla, in luogo senza vento, è lo Yogi che ha dominato la mente e che si è unito al Sé.” (IV, 19).
Tuttavia, anche se i riferimenti testuali alla disciplina dello Yoga sono molteplici, il testo base della scuola dello yoga classico sono gli ‘Yoga-sūtra‘ di Patanjali il primo ad elaborare le conoscenze e le trattazioni disseminate nei vari testi codificandole in un sistema pratico-scientifico. La sua codificazione si inserisce così accanto alle altre scuole ortodosse che traggono vita dai Veda e diventa Darśana (punto di vista). Questa codificazione viene poi da tutti riconosciuta come Raja yoga.
Questo Yoga porta a sospendere le modificazioni, le fluttuazioni, il caos della mente, causa dell’obnubilamento della nostra reale natura spirituale. Caos che si perpetra attraverso la proiezione di immagini illusorie dell’anima sulla pura coscienza del Sé.
Attraverso questa disciplina del corpo fisico e del controllo mentale si arriva a conquistare le sei virtù (śat samāpatti), che Śamkara, grande filosofo indiano esponente di spicco dell’Advaita Vedānta, indica come prerequisiti per accostarsi al sentiero della conoscenza (jñāna-yoga). Esse sono:
- Śama: calma mentale dovuta all’abbandono dei desideri, degli impulsi causati dalle Vasana o tendenze subconsce. Grazie alla volontà, che è poi la facoltà su cui poggia lo yoga, la mente non aderisce più agli oggetti interni ed esterni. E’ forse la più importante conquista in quanto dona volontà e direzione. Spenti i vari fuochi fatui (impulsi subconsci) si alimenta un solo fuoco: la volontà di essere.
- Dama: E’ la capacità di controllo dei sensi, del corpo, dei sensi, dell’energia vitale.
- Uparati: è il raccoglimento-silenzio interiore. La capacità di astrarsi dagli oggetti sensibili.
- Titikşā: è la pazienza. La capacità di perseverare e non scoraggiarsi.
- Samādhāna: è la fermezza mentale. La capacità della mente di rimanere stabile e concentrata. E’ questa qualità che porta a sospendere le modificazioni mentali e a raggiungere il Samadhi o contemplazione.
- Śraddhā: è la fede. E’ la certezza interiore della Verità delle Scritture, del Maestro che ne è l’incarnazione, ma anche della propria possibilità di auto-realizzazione. Insieme alla pazienza dà il giusto ritmo alla sādhanā proprio per non essere né troppo severi e austeri, né troppo deboli e accondiscendenti con se stessi.
Tali virtù, che per Śamkara sono prerequisiti per intraprendere il sentiero dell’auto- indagine (ātma-vicara), rappresentano i frutti lungo il sentiero dello Yoga o meglio del Rāja-yoga.